Dobbiamo ammettere, obtorto collo, che ci sono termini che in inglese suonano meglio. Piaccia o non piaccia. Pensiamo a “mixology”, che in italiano andrebbe tradotto “miscelazione”: una parola che, oltre alla creazione di cocktail, fa venire in mente altri significati, come miscela (termine squisitamente caffeicolo, che rimanda a sua volta al quesito: arabica o robusta?). Pensiamo ad altre parole straniere di utilizzo quotidiano, come “food” o “chef”. Food in italiano andrebbe tradotto “cibo”, un termine ormai desueto, che evoca più certe insegne degli anni Sessanta (ricordo la mitica vetrina del “Cibi Cotti”, a Milano, zona Ticinese, ripresa nel menù di Spontini: un esempio pionieristico di take away, altra espressione straniera) piuttosto che l’universo di prodotti, preparazioni, offerta di prodotti alimentari. Certamente, ci vorrebbe una discreta dose di coraggio per definire cibo il food, ma il rischio sarebbe di restare isolati e incompresi, audaci sostenitori di una supremazia linguistica difficilmente sostenibile. Chef, a sua volta, significa “capo” e, nel caso specifico della ristorazione, il “capo” della cucina. In italiano lo dovremmo tradurre “capocuoco” o qualcosa di simile. Se poi è l’executive, è il capo supremo e assoluto della cucina. Gualtiero Marchesi, rivoluzionario, visionario, anticonformista di livello superiore, insisteva spesso sulla supremazia della lingua italiana, almeno quando si parlava di chef. “Ma non sarebbe ora di chiamarlo cuoco?”, amava spesso ripetere. Non aveva torto e il suo costante richiamo alla verità (linguistica, ma non solo) era di esempio per tutti. Poi era il primo, Gualtiero, a usare il francese quando era necessario, per indicare ruoli, ingredienti o funzioni che in italiano non avevano il corrispettivo equivalente. Mi piace ricordare il Maestro, in questi giorni di primavera, quando avrebbe compiuto i suoi 89 anni. Una assenza, la sua, che pesa tantissimo. In quante situazioni me lo immagino a osservare (e commentare) certe situazioni di oggi o certi piatti che vorrebbero ispirarsi ai suoi, ovvero all’originale, ma rischiano di essere solo velleitarie imitazioni… E’ vero che diventano, queste, occasioni per ricordarlo, per parlarne, per farci ripensare ai suoi piatti e al suo valore, ma credo ci siano (anche) altri modi per trasmettere l’unicità umana e professionale di Gualtiero. Purtroppo l’autenticità è un valore assoluto. È la storia a fissare nel tempo ciò che è stato e a farlo rivivere, non attraverso repliche ma attraverso lo studio dell’originale. E’ così nell’arte, nella poesia, nella pittura, ma anche nell’alta cucina. Ricordo le battaglie di Gualtiero contro il plagio. E ancora ne condivido lo spirito. Pur rispettando le scelte attuali di molti chef (cuochi, ovviamente) nel reinterpretare con sapienza le creazioni del Maestro, talvolta con risultati straordinari, continuo a preferire il ricordo, la concretezza del ricordo, passatemi l’espressione, piuttosto che l’amore per la replica. Anche in letteratura, accetto le ristampe e i reprint, ma è l’opera originale ad essere la sola protagonista. Siete d’accordo?
Alberto P. Schieppati