di Alberto P. Schieppati
Nel cuore di Milano lo scorso febbraio viene inaugurato un ristorante di standing elevato, con proposta di cucina di altissimo livello, guidata da uno chef di grande valore ed esperienza, frutto di un progetto culturale -e sottolineo: culturale- ambizioso, in una location (per chi non ama l’uso dell’inglese e preferisce il nazionalismo linguistico: una posizione. Contenti?) destinata a restituire alla Galleria il suo ruolo originario di vero “salotto di Milano”. Un lavoro di recupero e ristrutturazione durato anni, teso ad accogliere armoniosamente su più livelli caffetteria, bar, pasticceria, ristorante, cantina, un salone privato per eventi: pavimenti in mosaico, soffitti affrescati, boiserie, bassorilievi, pareti in stucco, un bancone fine Ottocento, lesene, trabeazioni. Un monumento alla storia e all’arte, seppur attualizzato e reso contemporaneo grazie a un’atmosfera informale, da vivere con leggerezza e senza atteggiamenti liturgici. Arte da godere, avrebbe detto Bonito Oliva. Un omaggio all’estetica, uno scenario che porta la firma di grandi professionisti dell’architettura e del design, che hanno creato e valorizzato un luogo inedito per la città, espressione di una cultura architettonica che spazia dalla seconda metà dell’Ottocento a Giò Ponti. Eccezionale, verrebbe da dire. Un tesoro di cui vantarsi, con ambizione e orgoglio, nonché con quel senso di appartenenza che, evidentemente, a troppi italiani manca. Infatti, l’apertura del nuovo Ristorante Cracco, oltre a mobilitare attenzione e curiosità, plauso e attesa, certezze e ammirazione verso Carlo Cracco, ha fatto gridare allo scandalo la solita Italietta degli eterni indignati, irriducibilmente accaniti verso tutto ciò che non riescono a capire. Ma dove starebbe lo scandalo? Che lo Chef patron del ristorante in oggetto si chiami Carlo Cracco? Che il target di clientela di Carlo non sia quello dei “menù di lavoro”? Ma ça va sans dire! Che il suo menù risulti “caro e indisponente”, come qualcuno ha scritto sui social? Che Carlo Cracco proponga, accanto ad altre decine di opportunità, anche una sua idea di pizza che –secondo i puristi- non sarebbe affatto napoletana né dovrebbe chiamarsi Margherita? Ma chissenefrega: basta fare pochi metri per trovare pizze straordinarie, eseguite secondo lo stile e il talento di un altro grande imprenditore della ristorazione, Gino Sorbillo, napoletano doc (il quale, peraltro, non è affatto indignato dalle sperimentazioni pizzaiole del suo quasi dirimpettaio). Qual è dunque il vero motivo di certe intolleranze? Forse che uno dei più bravi chef al mondo quale Carlo è abbia “perso una delle due stelle Michelin e gliene rimanga soltanto una?”. Non penso, la maggioranza di quanti lo attaccano non sanno neppure il valore e il significato dei punteggi delle guide… E allora? Dov’è il problema? Molti rispondono che “in televisione Carlo Cracco è cattivo e antipatico”: ma, come dice Antonio Santini del Pescatore, non si rendono conto che in tv si recita un copione prestabilito?. Sarebbe come dire che John Wayne è antipatico…. Invidia e volgarità sono ormai l’ultimo anello di campagne approssimative e generiche contro l’alta cucina, frutto di ignoranza (trasversale ad ogni categoria sociale) e mancanza di approfondimento. Ogni forma di ristorazione ha i suoi perché, fatti di ragioni serie e avvalorati da scelte strategiche e da condizioni oggettive. Poi la passione, l’ubicazione, la geografia fanno il resto. Esiste Carlo Cracco, come esistono Marco Scandogliero, Cristina Cerbi, Mariuccia Bologna, Vittorio Mischi e tanti altri artefici di una cucina apparentemente più semplice e dominata da passione e autenticità. O Daniel Facen, Ettore Bocchia, Stefano Arrigoni, solo per fare qualche nome. Ognuno con il suo stile e i suoi valori. Tutti i segmenti di ristorazione vanno rispettati, purché vi si faccia qualità e diano piacere. Ogni ristorazione è diversa da un’altra, ma equilibrio, gusto e correttezza delle esecuzioni devono essere al primo posto. Punto. Da fine febbraio Milano ha un capolavoro in più, motivo di vanto e di orgoglio. Un monumento nazionale del buon gusto e dell’alta cucina, dell’eleganza e del talento. Un luogo che attira non solo per lo stile dei piatti di Carlo, peraltro all’insegna della continuità con il ristorante di Via Victor Hugo, ma per la bellezza armoniosa del tutto. Spetterà a lui mantenere questo impegno. E, di fronte a questa grande bellezza, trovo persino riduttivo puntare il dito sul fatto che “nella cantina di Cracco ci siano troppi vini francesi”, come ha fatto una giornalista. Accanto a grandi millesimi di Romanée Conti, spiccano prestigiose etichette italiane, duemila in tutto. Quando si fa (e si vende) eccellenza, non c’è competitività territoriale, né supremazia presunta dell’una sull’altro. Ogni paese ha la sua storia. Vega Sicilia sta a Sorì Tildin come Ornellaia a Petrus. Il bello e il buono appartengono al mondo e a quanti ne sanno apprezzare il valore.